giovedì 23 febbraio 2012

I terrificanti "saloni dello studente"

Alla fine della scuola superiore ci troviamo dinnanzi a una scelta da fare: continuare gli studi, iscrivendoci all'università, oppure trovare un lavoro. Non è così semplice scegliere il proprio futuro e molto spesso la strada intrapresa ci delude o non fa per noi. Cose che capitano, credo, sin dalla notte dei tempi e non credo che qualcuno sia mai morto per la scelta sbagliata.

Oggi credo che si dia un'importanza esagerata alla "scelta del proprio futuro", come se stabilire cosa si vuol "fare da grandi" significhi sottoscrivere un patto col diavolo, un contratto di lavoro, una promessa che assolutamente non si può rompere. Credo che, fatta eccezione per i limiti e le riflessioni sul pronome relativo, niente mi abbia mai messo così tanta ansia come i corsi di orientamento universitario cui ci obbligavano a partecipare gli ultimi due anni di liceo. Intere mattinate perse nel traffico della tangenziale, diretti al campus universitario di Monte Sant'Angelo per partecipare a uno degli eventi più inutili progettati dall'uomo: il "salone dello studente". Nella mente perversa degli organizzatori di questo evento, noi liceali, partecipandovi, avremmo avuto chiare le idee sul nostro futuro e saremmo stati in grado di scegliere con consapevolezza la facoltà che faceva per noi. Tralasciamo che il mio liceo (scientifico) preferiva introdurci alla conoscenza dei corsi di laurea "scientifici", snobbando deliberatamente quelli "umanistici". Tralasciamo che la folla che gremiva il complesso di Monte Sant'Angelo poteva benissimo passare per una platea di un concerto rock. Tralasciamo che l'unico beneficio che il "salone dello studente" ti portava era quello di sottrarti a due ore di spiegazione dei teoremi fondamentali dei limiti. Quello che proprio non sono mai riuscita a concepire, quello che davvero mi metteva agitazione, seguita da un'istantanea depressione, era il momento in cui gli sponsor, pardon, i docenti universitari, pubblicizzavano il corso di laurea in cui insegnavano, sottolineando soprattutto gli sbocchi occupazionali ad esso correlati. Come se a diciotto anni un ragazzo spensierato dovesse già sostenere il peso del "come arriverò a fine mese tra dieci anni". Come se fare l'università sia finalizzato solo a "trovare il posto dopo la laurea, sistemarmi".

Sinceramente, queste considerazioni mi rattristano. Io non ho scelto il mio corso di laurea perché dopo potrei "lavorare in enti di ricerca pubblici o privati, nel settore della pubblica istruzione o della divulgazione scientifica". Io ho scelto le Scienze biologiche perché dopo voglio fare la ricercatrice. Voglio passare le ore a guardare un campione al microscopio ottico e a sequenziare il DNA. Voglio svelare i meccanismi della memoria e dell'apprendimento. E, per il momento, non posso pensare che "la realtà della ricerca italiana è avvilente". Non posso permettermi di pensarlo, perché non posso deprimermi. Né posso perdere tempo pensando al mio futuro, nel senso del "come fare a mettere il piatto a tavola un domani". Ho cose più belle e più importanti a cui pensare. Qualcuno direbbe che vivo di sogni. E allora? Diamine, ho vent'anni e se non sogno ora, quando lo farò?

E poi: chi mi dice che, per quando dovrò inserirmi io nel mondo del lavoro, questo non sarà cambiato in meglio? Chi mi vieta di spostarmi, andare in Germania, Francia, America, Australia per fare la biologa? E soprattutto, chi ha detto che obbligatoriamente tu debba fare un lavoro correlato alla tua laurea? Ma perchè, non posso vendere fiori avendo studiato cinque anni filosofia? Non posso essere un tabaccaio con un dottorato in biochimica? Mia sorella, laureata in lingue, fa la cameriera al Mc Donald. Non è infelice, né depressa e il suo lavoro lo fa bene. Ho scritto questa nota per chi ancora non sa cosa fare dopo la scuola, per chi vuole fare Archeologia e si sente dire che gli archeologi non hanno futuro in Italia (questo è davvero triste, se si considera lo sterminato patrimonio storico e archeologico italiano), per chi vuole fare Astrofisica e alla Federico II non può, perché il corso di laurea è stato disattivato. Per chi ha fatto la scelta sbagliata e ha paura di lasciare tutto e ricominciare da capo. Inseguite i vostri sogni, non vi fate avvilire dagli "sbocchi occupazionali". Ne abbiamo tutto il diritto.

martedì 5 luglio 2011

Vita universitaria

Ancora due esami, Botanica e Zoologia, e poi si chiude il mio primo anno universitario. Sinceramente mi aspettavo una vita universitaria diversa, più viva; invece, soprattutto nei primi mesi, frequentare i corsi è stata una semi-tortura. Non riuscivo ad abituarmi al nuovo ritmo, ai nuovi insegnanti e alle nuove amicizie. Napoli mi appariva come una città brutta, sporca, infernale. Poi, pian piano, al ritmo della sveglia delle sei e un quarto e dello sferragliare del diretto delle sette e dieci, mi sono rassegnata alla nuova routine e ho cominciato a non soffrire più. Tuttavia, l'università, per me, non è affatto meravigliosa come molti mi hanno raccontato, anzi. Rimpiango la vita liceale, anche quello stramaledetto ultimo anno, quando il tempo e il lavoro te lo organizzavano gli altri e la tua unica responsabilità stava nel rispettare scadenze fissate da altri. Ora, invece, è tutto diverso: sta a te programmare il lavoro e gli esami da dare, sta a te decidere di accettare o meno il voto di una prova, sta a te assegnarti i compiti da svolgere giorno per giorno. E' vero, si diventa grandi ed ovviamente è indispensabile imparare a non dipendere da qualcun altro per l'organizzazione del tuo tempo. Insomma, non siamo più alle scuole elementari (hai o non hai vent'anni? Nooooooo, non ci posso credere, vent'anni! O.O).
Il problema non è nemmeno quello dell'organizzazione: per quanto sia sempre in ansia e nel costante terrore di non farcela, fino ad ora me la sono cavata perfettamente. Il problema è che mi aspettavo un'università più stimolante, più viva. Mi aspettavo dei professori diversi, che non si limitassero a sciorinarti la propria materia, ma che ti coinvolgessero appieno, che ti facessero appassionare a quanto veniva spiegato. Fino ad ora, solo la professoressa di Chimica generale del primo semestre è riuscita in questo miracolo ed io le sarò sempre grata. Ma, professori a parte, speravo di trovare un ambiente più vivo anche tra i colleghi: intendiamoci, ho conosciuto persone molto simpatiche, con cui mi trovo benissimo e sono davvero felice di averle incontrate. Tuttavia, pare che pochi, pochissimi, abbiano scelto di frequentare Scienze Biologiche perchè provano piacere a studiare la vita, perché si emozionano quando osservano un cloroplasto al microscopio e si interessano al phylum dei Molluschi durante una lezione di Zoologia. La gran parte delle persone che ho incontrato ha scelto questa facoltà o perché non è entrata a Medicina, Scienze Infermieristiche e affini o perché, in mancanza di meglio, facciamo Biologia, che è facile. Non voglio generalizzare, né offendere tutte queste persone, ma non posso che essere amareggiata da parte mia. A volte vorrei condividere il mio entusiasmo per una lezione, vorrei discutere con qualcuno dei miei colleghi di quanto sia bello, elettrizzante studiare la vita in tutte le sue forme, ma è raro che possa farlo.
Credo che questa mancanza di amore per quello che si studia, per quello che si fa nel proprio piccolo della propria vita sia diffusa tra i ragazzi e, forse, tra gli uomini e penso che sia veramente questa mancanza di passione. E' triste, perché il lavoro non viene sentito come piena espressione di sé, ma come solo mezzo per guadagnarsi da vivere. E penso che, se non ami sul serio quello che fai, il prodotto del tuo lavoro sarà sempre meno compiuto, meno bello di quanto sarebbe potuto essere se avessi avuto piacere nel farlo.
Per quanto mi riguarda, amo molto la mia facoltà, sebbene, prima di ogni sacrosanto esame, l'ansia e l'insicurezza mi facciano desiderare di abbandonare gli studi e dedicarmi ad altro. Penso che la Biologia sia sottovalutata, ritenuta una scienza "sorpassata" e inferiore alla Medicina soprattutto. Invece noi siamo vita, siamo biologia. Ed è così bello studiare la vita! Ed è così stupido fare una classifica delle facoltà! Tutti gli studi sono belli e importanti: è fondamentale, tuttavia, entusiasmarsi, provare piacere per quanto si studia...
So che quanto ho scritto può essere banale e risaputo, ma a volte ho l'impressione che i miei coetanei, che le persone in genere tendano a dimenticarsene e a vivere nell'indifferenza totale...

domenica 26 dicembre 2010

Harry Potter e i Doni della Morte-Parte1//ATTENZIONE SPOILER!


Un amico mi chiese come mai, dopo aver passato un mese a fare il conto alla rovescia su facebook, non avessi ancora scritto la rcensione di "Harry Potter e i Doni della Morte". La risposta è perchè volevo prima "metabolizzare" la visione del film, prima di darne un giudizio completo. Credo che sia arrivato il momento di farlo, se non altro perchè il film merita qualche parola.
Innanzitutto voglio riportare la profonda incredulità che mi ha colto allorquando, terminata la visione del film, mi sono resa conto del fatto che Yates sembra essere rinsavito. Sarà che gli saranno fischiate le orecchie dopo tutte le bestemmie che noi potteriani gli abbiamo rivolto in seguito al fiasco clamoroso di "Harry Potter e il Principe Mezzosangue"; sarà che ha parlato con un buon psichiatra, sta di fatto che nel settimo capitolo cinematografico della saga più bella di tutti i tempi, il regista si è deciso a focalizzare la propria attenzione sulle VICENDE del libro e non su quelle di SUA invenzione. E se nel sesto film era tutto un susseguirsi di sbaciucchiamenti (penosi, tra l'altro) e sospiri d'amore, nel settimo ci si ritrova ad ammirare scene più interessanti, come l'infiltrazione di Harry, Hermione e Ron al Ministero della Magia (di una fedeltà al libro alquanto insolita per David Yates) e più emozionanti, come la sequenza finale, in cui è rappresentata la struggente morte di Dobby, l'elfo domestico. Mi ha colpito particolarmente anche la sequenza di apertura, che vuole mostrare la drammaticità della situazione nel mondo magico, ormai costretto a convivere con l'incubo e il terrore quotidianamente, come precisa anche il Ministro della Magia nella primissima scena. A questa seguono delle scene che rappresentano la preparazione dei protagonisti al difficile percorso che li attende, quello che li porterà alla ricerca degli Horcrux (oggetti preziosi in cui Voldemort ha nascosto parti della propria anima frammentata) e allo scontro finale con Colui Che Non Deve Essere Nominato. Mi piace la parte in cui Hermione modifica i ricordi dei suoi genitori (babbani): una decisione molto triste, ma necessaria, dato che la ragazza non ritornerà nella scuola di magia e stregoneria di Hogwarts (come del resto faranno anche Harry e Ron), ma sarà impegnata in un viaggio di crescita e scoperta di sè e del pericolo. Sono belle le musiche che fanno da sottofondo a questa sequenza, in cui è mostrato anche Ron, che, con uno sguardo leggermente inebetito (che forse nell'intenzione di Rupert Grint voleva essere "perduto in riflessioni sul viaggio imminente", ma che, secondo il mio modesto parere, somiglia al mio sguardo quando leggo un problema di Analisi Matematica) scruta l'orizzonte.
Un orizzonte plumbeo, come plumbei sono i colori e i silenzi del film. Infatti, a differenza delle precedenti, la pellicola si segnala per lunghe sequenza silenziose e inquadrature mute di vaste lande desolate, foreste cupe, spazi pietrosi e impervi, nei quali i tre amici si accampano con la loro tenda e il loro primo Horcrux ritrovato, il medaglione di Salazar Serpeverde, rubato a Dolores Umbridge al Ministero. Un Horcrux che è un fardello enorme, che va ad aggiungersi alla stanchezza e alla paura dei ragazzi, i quali non sanno come distruggere l'oggetto (e quindi il frammento di anima voldemortiana in esso contenuto) e come fare per trovare gli altri Horcrux. Così Ron, forse il più debole dei tre (o semplicemente il più vulnerabile al potere malefico del medaglione) litiga con Harry e abbandona l'amico e l'amata Hermione, salvo poi ritornare provvidenzialmente più tardi, proprio quando Harry ha trovato la spada di Grifondoro e quindi l'arma per distruggere l'Horcrux. Molto bella la scena che descrive la distruzione del medaglione, fedele al racconto e ricca di suggestioni. Tuttavia, penso che la sequenza più riuscita, quella che veramente mi ha fatto dire che "Harry Potter e i Doni della Morte" è un bel film, riguardi la rappresentazione della favola dei "Tre Fratelli", quella che in effetti dà il nome al libro e alla pellicola. La storia dei doni della morte, richiesti ciascuno da tre fratelli che incontrano la Morte lungo il proprio cammino, infatti, è rappresentata attraverso le ombre: i personaggi sono ombre, la Morte è un'ombra larga e incombente, i paesaggi sono ombre. È bello l'uso dell'ombra, perchè rende l'idea della fiaba e allo stesso tempo della realtà (almeno parziale) della storia. Infatti uno dei tre fratelli è Ignotus Peverell, antenato di Harry, che chiede alla Morte il suo Mantello dell'Invisibilità, del quale si serve per sfuggirle a lungo, prima di arrendersi alla vecchiaia e all'inevitabile detsino dei mortali. Il Mantello dell'Invisibilità di Ignotus non è leggenda: esiste davvero e passa di generazione in generazione, arrivando ad Harry, che se ne servirà spesso durante le sue avventure. L'ombra, dicevo, esiste, dunque è realtà, ma allo stesso tempo è fuggevole e intoccabile, come una fiaba. Mi sorprende, quindi, che Yates sia stato capace di portare sullo schermo così bene la storia dei tre fratelli.
Un po'lenta e priva di drammaticità (al contrario, nel romanzo, il drammatico traspare da ogni parola) è la penultima sequenza a Villa Malfoy nella quale Harry, Ron ed Hermione affrontano i terribili Mangiamorte, decisi a consegnare Harry a Voldemort. In questa scena Hermione dovrebbe soffrire a morte per le torture di Bellatrix Lestrange (una bravissima Helena Bonham Carter), ma Emma Watson sullo schermo si limita (come suo solito) ad alzare e abbassare in fretta le sopracciglia e Ron, che dovrebbe disperarsi e lottare con le unghie e i denti (ma letteralmente) per salvare la sua amata, in realtà si limita a qualche urletto e a qualche movimento fiacco delle braccia. Ma il tutto viene compensato dall'eroico arrivo di Dobby, l'elfo domestico amico fedele di Harry Potter, che in nome della Libertà, quella interiore e non quella di facciata, salva i tre, beccandosi una pugnalata al cuore dalla perfida Bellatrix. Ora, nonostante noi potteriani conoscessimo la fine dell'elfo, alzi la mano chi non ha pianto come una cascata quando ha visto gli occhioni viteri di Dobby guardare per l'ultima volta l'affranto Harry Potter. La scena della morte di Dobby è straziante. Non trovo altro aggettivo meno banale. Si piange a singhiozzi e gli spettatori se ne escono dal cinema con un grande vuoto nel cuore.
Complessivamente il film mi è piaciuto molto: ha una marea di difetti (secondo mia sorella manca della "drammaticità degli eventi" che troviamo, invece, nel libro) e David Yates continua ad essere un coglione, però mi è piaciuto. Mi sono emozionata molto, anche nelle lunghissime scene mute, in cui non succedeva niente, ma ci si limitava a mostrare la cupezza del paesaggio (e per traslazione dell'anima dei personaggi). Adesso aspettiamo con ansia la seconda parte (per chi non l'avesse capito: il settimo film l'hanno diviso in due, Yates, infatti, ha pensato bene di non escludere nulla del libro), sperando che l'epica battaglia finale non venga oscurata dal matrimonio di Harry con Ginny/Bonnie WrightBloccodiMarmo.

domenica 3 ottobre 2010

Come ho imparato ad odiare e a sconfiggere i valori assoluti

Per la maggior parte dei ragazzi la matematica ha sempre rapppresentato l'Incubo con la i maiuscola. Chi non si ricorda delle giornate passate a sudare e a non capire niente di quanto si leggeva nel diabolico manuale scolastico o negli appunti arabi che il professore aveva dettato in classe? Chi non ricorda il terrificante VUOTO MENTALE che puntualmente si manifestava dinnanzi a un problema qualsiasi, soprattutto quelli del tipo: “Una vasca dalla capacità di x litri ha un buco sul fondo...” (spiegatemi chi genio si mette a indagare sui buchi della sua vasca invece di chiamare l'idraulico)? Chi, soprattutto tra i liceali dello scientifico, potrà mai rimuovere la delusione, lo sconcerto, il panico provati nello scoprire che gli integrali non hanno niente a che fare con salatini o biscotti?

Per quanto mi riguarda, credo che nessuno, tra psicologi, psichiatri, neurologi e neurochirurghi, potrà mai guarimi dalla “sindrome del valore assoluto". Il valore assoluto (o modulo) di un numero è una funzione incontrata per la prima volta in seconda liceo, quando ero ancora una ragazzina convinta che la matematica fosse un universo imperscrutabile, riservato a pochi eletti. Lo scontro con il valore assoluto non fece altro che rafforzare questa mia convinzione, oltre che aumentare in modo esponenziale la mia insicurezza. In parole povere non capii niente. Non capivo a cosa servisse quella dannatissima funzione, non capivo da dove fosse uscita fuori, non capivo cosa significasse, non capivo perchè mai dovessi studiarla per forza. Conseguentemente non sapevo usare il valore assoluto. Mi sentivo una completa fallita. Con molta fatica, e dopo molto tempo, imparai a memoria i vari passaggi da seguire per risolvere le equazioni e le disequazioni in valore assoluto, senza, tuttavia, pormi domande su quanto mi limitavo ad applicare. Arrivai al triennio. Ora, l'usare meccanicamente il valore assoluto non aveva risolto il mio problema di insicurezza cronica e ogni volta quella due, odiatissime, insopportabili stanghette dritte che imprigionavano un numero o un binomio, un polinomio e quant'altro (per inciso, le due stanghette sono il simbolo del valore assoluto) sembravano imprigionare anche il mio stomaco e la mia gola. Sebbene risolvessi in continuazione i valori assoluti, non ero mai sicura di quanto avevo fatto, nè pienamente consapevole. Dopo altro tempo, altri compiti in classe, altri attacchi di panico, finalmente imparai ad usare con dimestichezza questa funzione (anche quando in un'equazione o in una disequazione comparivano più valori assoluti!!). Tuttavia, un fondo di incertezza e di paura me lo porto ancora dietro.

Stamattina ho aiutato mia sorella a risolvere un valore assoluto ed ho notato che lei presenta le stesse difficoltà che presentavo io. Dunque, infuriata col mondo, con i libri di matematica, con la matematica e con l'inventore del valore assoluto, ho deciso di fare una ricerca sulla storia di questa funzione. E ho trovato un tesoro. Ho trovato il difensore degli studenti oppressi dal valore assoluto. Sul sito dell'università di Palermo c'era un documento che riguardava uno studio sulla difficoltà che gli studenti incontrano con i valori assoluti. Il documento in questione riportava dapprima le diverse definizioni di valore assoluto, poi sceglieva quella più rigorosa e adatta alla comprensione di uno studente, dimostrava le principali proprietà della funzione e procedeva col riportare LA STORIA DEL VALORE ASSOLUTO. Ragazzi, dietro quelle orribili stanghette si cela una storia complicatissima, fatta di milioni di matematici che per secoli hanno dibattuto, giungendo anche a conclusioni diverse, su quella funzione, la quale ha assunto dignità solo in tempi relativamente recenti. E chi l'avrebbe mai supposto che il valore assoluto chiama in causa i numeri complessi (che a scuola si accennano solo) e che è FONDAMENTALE per capire i limiti (questo l'avevo intuito, anche se in modo meccanico), altri ossi duri per gli studenti?

Dopo la lettura del documento mi sono rasserenata COMPLETAMENTE. Uno, perchè ho scoperto che il valore assoluto ha causato un sacco di problemi a eminenti matematici. Due, perchè il documento faceva un confronto sulle diverse definizioni della funzione (date da vari testi scolastici), mettendone in luce i pro e i contro, le inesattezze (chi avrebbe mai supposto che un libro di matematica possa sbagliare E PURE DI PARECCHIO) e le difficoltà che possono provocare in degli studenti, non solo quelli negligenti e svogliati, ma anche quelli diligenti e curiosi.

Al di là del fatto che questo documento mi scagiona da ogni responsabilità della mancata comprensione dei valori assoluti, esso mi ha fatto riflettere sull'importanza di saper insegnare la matematica. Credo che, soprattutto per quanto riguarda questa disciplina, il saper insegnare sia FONDAMENTALE. Un professore di matematica non deve limitarsi a sciorinare le sue conoscenze accademiche. Egli deve comprendere e, se possibile, anticipare le difficoltà degli studenti riguardo a un argomento più complesso. E SOPRATTUTTO, un professore di matematica deve parlare un linguaggio chiaro, limpido, che abbia senso, che arrivi dritto al cervello dei ragazzi, che li coinvolga, che permetta loro di non sentirsi dei completi deficienti, nonostante impieghino tutte le loro energie nello studiare quell'argomento.

Molti insegnanti (anche nei licei scientifici) non fanno studiare la teoria di matematica. Cosa per me inconcepibile. Noi sapremmo scrivere in modo decente se non avessimo prima studiato l'alfabeto, le regole grammaticali, le regole di sintassi, se non avessimo letto molto??? Noi sapremmo suonare il pianoforte se non avessimo prima studiato il solfeggio e tutta la teoria connessa a questo strumento??? Noi sapremmo parlare con spirito critico di un filosofo e del suo pensiero se non avessimo prima effettuato degli studi molto, molto approfonditi sullo stesso??? No. E allora perchè diamine pretendiamo di saper risolvere un qualsiasi esercizio di matematica se prima non abbiamo sudato fino a inzupparci la camicia sul libro? Se prima non abbiamo studiato, letto, riletto, guardato, analizzato dimostrazioni, teoremi, STORIA di quell'argomento? Se ho risolto gran parte dei miei problemi con la matematica lo devo soprattutto ai miei pomeriggi del triennio, durante i quali trascorrevo mediamente quattro ore al giorno a studiare non solo la teoria della materia, ma anche il suo linguaggio. Lo devo, inoltre, alla mia professoressa, che non rideva se le chiedevo a cosa servisse quello che studiavamo e che non rideva se io le dicevo che mi ero esaurita studiando un qualsiasi argomento.

Personalmente, penso che le mie difficoltà col valore assoluto derivino da lacune pregresse, che mi porto dietro dalle scuole medie. E, nonostante io abbia fatto un ottimo liceo scientifico, neanche gli anni liceali hanno contribuito a colmare quelle lacune, soprattutto i primi due, poichè non ho mai studiato la classificazione dei numeri, le loro caratteristiche, il loro carattere INDISPENSABILE per la comprensione di tutte le funzioni che ho dovuto studiare poi. È come se avessi saltato qualche gradino nel salire la lunga e tortuosa scala della matematica.

Però, se fino a stamattina mi sentivo colpevole di queste mie lacune, ora, almeno per quanto riguarda i valori assoluti, mi sono intimamente assolta. E non sapete con quanta gioia posso scrivere: LAURA: 1 VALORI ASSOLUTI: 0.

Qui di seguito c'è il link al documento, interessantissimo:

http://math.unipa.it/~grim/cdSISSIS/Valore_assoluto.PDF

domenica 19 settembre 2010

Mangia Prega Ama



Oggi sono andata a vedere "Mangia Prega Ama" di Ryan Murphy, con Julia Roberts, James Franco, Javier Bardem. Il film è tratto da una storia vera, la cui protagonista è Elizabeth Gilbert, una scrittrice americana di successo, con una bella casa, un bel marito, ma, a quanto pare, una vita tutt'altro che bella. Liz, a suo dire, ha "perso la gioia di vivere", pertanto pensa bene di fare un viaggio di un anno che abbia come mete l'Italia, l'India e l'Indonesia. Dunque si separa dal marito (non senza sofferenza...gran parte del film è dedicata al conflitto e ai rimorsi interiori della protagonista, che non riesce a perdonarsi di aver divorziato e fatto fallire il suo matrimonio) e, dopo un'avventura con il "mistico" (più giovane di lei) David (James Franco), parte finalmente per il suo viaggio.
Prima tappa: Roma. Primo comandamento: MANGIA! E giù con piatti di succulenti spaghetti al pomodoro e altre prelibatezze che, effettivamente, solo in Italia possiamo mangiare. Alcune inquadrature della capitale sono molto belle, anche se un po'da cartolina (ma il Colosseo rimane la struttura più affascinante che io abbia mai visto!). La casa dove Liz alloggia è in decadenza (il soffitto deve essere sostenuto da alcune impalcature), ma emana il fascino antico e suggestivo delle vecchie abitazioni, le quali sembrano serbare i ricordi preziosi di un tempo antico...A Roma la nostra scrittrice incontra il BELLISSIMO (ma questo è solo il mio modestissimo parere xD) Giovanni (Luca Argentero, che, per l'occasione da piemontese si trasforma in romano, anche se l'accento di Moncalieri si fa sentire, eccome!!), che le fa scoprire i luoghi più belli della città e le insegna a vivere "all'italiana", il che comprende la pratica del "dolce far niente". Ora, "dolce far niente"è un'espressione propria del film. Questo mi fa pensare all'immagine molto, come dire?, lusinghiera che gli americani hanno di noi. Insomma, l'Italia fa sempre la figura dell'obeso, che preferisce un'abbuffata di spaghetti e la nullafacenza totale all'iperattività cronica e stressante dell'America. Sicuramente sono d'accordo con il discorso di Argentero, che nel film critica il ritmo impossibile degli americ
ani, che, com'è detto giustamente, "conoscono l'intrattenimento, ma non il divertimento", ma, cioè, essere perennemente additati come esemplari dell'ozio non è proprio un'immagine edificante. Dato sfogo a questo nanosecondo di patriottismo, passiamo oltre. Per Liz è arrivato il momento di lasciare i colori, le abbuffate italiane (non dimentichiamo la splendida pizza che si mangia a Napoli-a proposito, si accettano inviti per una pizza da "Michele" a Portalba) e gli amici romani (c'è da dire che il GiovanniFrescoArgentero, stranamente, non se la fila la Liz, ma si concentra su una bella svedese), per raggiungere la seconda, silenziosa e mistica meta: Delhi!
Dunque, secondo comanda
mento: PREGA! Elizabeth faticherà molto ad abiituarsi allo stile di vita indiano, così lento, meditativo, silenzioso. Ecco, il termine giusto per definire questa seconda esperienza è SILENZIO. Tant'è vero che Liz incontra una donna che ha fatto il voto del silenzio per quattro settimane. In effetti Liz aspira al silenzio e alla quiete. Ma non ci riesce. E innervosisce (in questo suo tentativo) lo spettatore, che vuole meditare, con gli occhi chiusi e i pollici uniti agli indici, ma si sente letteralmente sommerso dalle parole un po'vuote e ripetitive che la nostra scrittrice scambia con il "saggio di turno" (oddio...non ne ricordo il nome!). Questo saggio, che, con un tatto degno di un elefante imbottito di psicofarmaci in un negozio di cristalli, fa notare ogni nanosecondo a Liz quanto mangi, affibbiandole il soprannome di Mandibola, questo saggio, dicevo, sebbene faccia tanto "il saggio", che dice alla protagonista cosa fare e non fare, come sgombrare la mente e ritrovare se stessa e bla bla bla, in realtà ha anche lui il suo scheletro nell'armadio. Un passato di droghe e alcoldipendenza. Che per poco non ha causato la morte di suo figlio, quando questi aveva otto anni. E quindi lui, "il saggio", si è allontanato dalla famiglia ed è andato in India, anche lui "per ritrovare se stesso" (e il suo cervello, presumibilmente). Certo che tipi così sfigati si incontrano solo al cinema...Comunque, alla fine questo saggio, dopo la sua brava confessione a Liz (manco se questa fosse un prete), pare che ritorni a casa, dal figlio ormai diciottenne. E intanto Elizabeth impara a meditare e pare integrarsi proprio bene tra gli indiani.
Infine, è tempo di ripartire. Ultima meta: Bali. Ultimo comandamento: AMA! Ci si chiede se non sia superfluo imporre a una persona sana di mente un comandamento simile. Soprattutto se uno si trova a Bali (e se non sapete dov'è cercatevelo su Google, e cercatevi pure le foto!) e SOPRATTUTTO se uno si trova insieme a JAVIER BARDEM. Tralasciando il naso un po' "sconnesso" di quest'attore, non mi ero mai accorta di quanto fosse MASCHIO Javier Bardem. Beatissima Penelope Cruz, che se l'è sposato e aspetta anche un figlio da lui. Javier (o Saverio, come mi piace ribattezzarlo), che nel film si chiama Felipe, si innamora sul serio di Liz. E lei, come la deficiente, ci mette un millennio prima di arrendersi a questa bellezza MASCHISSIMA di Felipe. Perchè lei ormai ha ritrovato il suo equilibrio e no, se poi si lascia andare con Saverio lo perde e lei non può mica permettersi di perderlo, perchè poi deve fare un altro giro intorno al mondo, e insomma, la crisi economica c'è per tutti, i soldi mica crescono sugli alberi e VATTELAPESCA, LIZ! Io, se JAVIER BARDEM mi chiedesse di andare in barca con lui per approdare su un'isola deserta e stare lì, insieme a lui solo 5 giorni, non gli lascerei manco il tempo di formulare per intero la sua richiesta!!!
Alla fine, però, pare che Liz, oltre a mantenere il suo ritrovato equilibrio, recupera anche il suo cervello. E trova una parola per decriversi: IMBARCARSI. E sapete con chi lo fa???
Sì! Sì! Proprio con lui! SAVERIO BARDEM! Che invidia, ragazzi!!!
Nel complesso "Mangia Prega Ama" è un film che "si può vedere". Nel senso che se siete giù di morale e avete bisogno di rifarvi gli occhi ci pensano James Franco (che qui è di una frescura che "significar per verba non si poria"-e dopo la citazione di Dante è il caso che io chiuda questo blog), Luca Argentero e Javier Bardem. Il cast non è male, intendendo anche dal punto di vista recitativo: Julia Roberts è intensa, con uno sguardo magnifico, un'espressione superba e anche Javier Bardem è molto bravo, affascinante e simpatico al punto giusto. James Franco un po'inespressivo, probabilmente perchè il suo personaggio non è tra i più simpatici. I dialoghi non sono tra i migliori, la colonna sonora è da segnalare (se non altro perchè è del grandissimo Dario Marianelli, premio Oscar per la colonna sonora di "Espiazione"), qualche inquadratura mozzafiato, molti stereotipi, qualche passaggio che non ho capito (soprattutto quando c'entra "il saggio"). Ma, nel complesso, il film è decente. Se non avete niente di meglio da fare o vedere.

giovedì 2 settembre 2010

I Grandi Classici: storia di un amore fraterno.

Quando frequentavo le Elementari, la mia maestra di italiano ci raccontò della febbre della lettura che l'aveva colta da ragazzina. Ci disse che voleva solo leggere, che aveva così tanta fame di libri, che la mattina faceva tardi a scuola per ultimare la storia che stava leggendo. Quell'aneddoto (non so se vero o inventato) mi è rimasto impresso nella mente, soprattutto perchè anch'io, col passare degli anni, sono stata sempre più divorata dalla febbre della lettura.

La prima volta che ho preso un libro in mano avrò avuto sei anni, giusto l'età in cui (finalmente) viene svelata l'arte del saper leggere. Quel libro ce l'ho ancora: è una raccolta di fiabe indiane, rilegata con una copertina verde e lucida, in cima alla quale c'è scritto (se non sbaglio) "gli zecchini" e sotto ci sono disegnate delle monete d'oro. Poi sono passata ai libri di Gianni Rodari. Papà me li comprava ogni volta che andava a Napoli e a me piacevano tanto: ricordo il libro "Filastrocche per un anno", che ho letto e riletto fino a saperlo a memoria. Le illustrazioni di questa raccolta erano buffe, sembravano fatte da un bambino dell'asilo. I libri di Rodari sono dei capolavori per i piccoli. Ce n'era uno con una storia che parlava di una bambina che, dopo la morte del padre, decide di non crescere più. E così lei, nonostante compia sempre un anno in più, rimane sempre piccola e minuta come una bambina di dieci anni. Ma, a un certo punto, Teresina deve decidere di crescere almeno una spanna, perchè la mamma si ammala, la nonna è troppo vecchia e il fratello troppo piccolo e dunque lei deve badare alla casa. Pian piano Teresina cresce sempre di una spanna, per rendersi sempre più utile, finchè non diventa una gigantessa per sconfiggere un brigante venuto in città. La storiella si chiamava "Teresin che non cresceva"e mi è rimasta fissa nella mente: l'avrò letta duemila volte.

Dopo Rodari, verso gli otto anni, mi decisi a leggere i grandi Classici per ragazzi. E di colpo mi innamorai di tutti i romanzi dell'Ottocento, che ancora oggi mi accompagnano. Forse il primo Classico letto è stato "Senza famiglia", di Hector Malot. Me lo prestò la mia madrina, zia Rosaria. Era un libro con la copertina viola, sulla quale forse era disegnato un bambino. Non ricordo bene, però, di cosa parlasse. Mi pare che il protagonista era un bambino che ne passava di tutti i colori, prima di arrivare all'Happy End. Poi ho letto anche "Senza famiglia" (sempre di Malot): di questo romanzo ricordo solo che fu la prima lettura a farmi versare una lacrima.

Sempre da zia Rosaria mi feci prestare un libro del quale avevo sentito parlare e che mi incuriosiva molto: "David Copperfield". Ora, premettiamo che quella che mi prestò zia era semplicemente un'edizione ridotta, adattata per i bambini, e che solo anni più tardi incontrai il VERO "David Copperfield", che è un tantino in sovrappeso. A parte questo, i miei due incontri con questo romanzo si sono risolti nello stesso modo, cioè con la mia fuga a gambe levate da una storia più tragica di tutto il Ciclo Tebano messo assieme. E non venite a dirmi che "David Copperfield" finisce bene, perchè non basta un happy ending per non decretare David un completo SFIGATO. Spieghiamoci. Questo ragazzino nasce che il padre è già morto, ha una madre incapace (per non dire idiota) e una prozia (zia del fu David Copperfield Senior) che al momento della nascita gli nega ogni protezione o benevolenza (salvo poi smentirsi quando se lo vedrà comparire davanti tutto frusto e sporco, per aver fatto a piedi la strada da Londra a Dover). Dopo un'infanzia relativamente felice, David subisce lo shock del secondo matrimonio della madre con il signor Murdstone, un tizio dalla perfidia indescrivibile, così perfido che al confronto Lucifero è ambasciatore dell'ONU. Quindi Davidlosfigato è mandato in collegio (e qui, manco a dirlo, è tartassato da tutti), poi gli muore la madre, poi deve lavorare per l'azienda del patrigno, poi, proprio per sfuggire al discendente di Lucifero, decide di fare il già citato viaggetto per cercare aiuto presso la zia Betsy, e poi eccetera eccetera, figuratevi le catastrofi più incredibili (tra le quali incontrare Uriah Heep, un individuo che supera anche Murdstone in perfidia) e avete la storia di David Copperfield. Caso strano: da bambina dovevo avere un cuore tenero come il burro, perchè il romanzo non riuscii a finirlo causa "fontana di lacrime" che irrimediabilmente sgrogava dai miei occhi man mano che procedevo con la lettura. E dire che era l'edizione per bambini. Per questo, quando mi mancavano sì e no trenta pagine alla fine, lo mollai. Più tardi, quando presi l'edizione integrale del romanzo di Dickens, lo mollai nuovamente, ma solo perchè dopo cinque righi di lettura praticamente stavo sognando (ma nel senso letterale del termine).

A parte la parentesi Copperfield (che mi ha instillato un odio indefinibile per Dickens), gli altri Classici letti son stati per me dei compagni insostituibili. "Piccole Donne", "Pattini d'Argento", "La piccola Lady", "La piccola principessa", "Il piccolo Lord", "Il giardino segreto", "Il frutteto incantato", "TRE UOMINI IN BARCA" (scoperto grazie alle maestre, che me lo regalarono alla fine delle Elementari) e tanti, tanti altri titoli indimenticabili!

E poi ci siam fatte più grandicelle, quindi ci siamo accostate a Dumas, Pirandello, Zola, Balzac, Dostoevskij, Jane Austen, le sorelle Bronte (tra tutte, la più amata è Charlotte), Hawthorne, Hardy, Edgar Allan Poe....

I grandi Classici sono per me dei fratellli maggiori, dai quali trarre insegnamenti insostituibili, che, per il momento, non ho ancora trovato nei libri più recenti. Ecco perchè mi definisco un po' "conservatrice" per quanto riguarda le mie letture, perchè mi accosto sempre con scetticismo ai romanzi scritti dagli anni '50 ad oggi. Forse perchè ho avuto brutte esperienze (vedi le letture di Moravia -.-" oppure "La solitudine dei numeri primi" di Paolo Giordano -.-""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""""). O forse perchè ho avuto un'insegnante di italiano al biennio particolarmente mmm...come dire? "Fissata" con i libri scritti dai tempi preistorici fino a quelli di Pirandello (massimo). Ma forse è perchè, più di qualsiasi altro romanzo, i Grandi Classici hanno sempre qualcosa da dire, in ogni tempo e in ogni luogo.

domenica 22 agosto 2010

Sfogo personale sulla schifezza del Numero Programmato. Dedicato a Vittoria.

A settembre anche io andrò all'università. Per me si apre un nuovo capitolo e, se da un lato provo la curiosità e la gioia di iniziare un percorso così importante, dall'altro, com'è normale, ho sinceramente paura di non riuscire, di non trovarmi bene. A parte questi dubbi, che sono propri di qualsiasi studente neodiplomato, c'è un fatto che mi ha dato modo di riflettere, oltre che sulla mia sfiga, sul sistema universitario in generale e sul modo “singolare”con cui vengono valutati la preparazione e la dedizione allo studio di un ragazzo. Non che io pretenda di conoscere nel profondo come funzioni l'università, nè mi permetto di giudicare la valutazione di persone di gran lunga più competenti di me, tuttavia vorrei esprimere alcuni dubbi a proposito del sistema del “numero programmato”, che, ormai, è sempre più adottato nei nostri atenei. Come sappiamo, alcune facoltà universitarie sono “chiuse”, vale a dire mettono a disposizione degli studenti un tot numero di posti, ai quali è possibile accedere solo se viene superato un test caratterizzato mediamente da un'ottantina di quesiti a scelta multipla, che vertono su diverse discipline. A partire dal 1999, la legge ha stabilito che i corsi di laurea in Medicina e Chirurgia, Medicina Veterinaria, Odontoiatria e Scienze della Formazione Primaria debbano essere a numero “chiuso”per tutte le università italiane. La stessa legge prevede che, a discrezione dei singoli atenei, è possibile rendere anche altri corsi di laurea a numero programmato. Per cui, progressivamente, questo sistema si è diffuso come i funghi in moltissime università della penisola e ha stabilito uno “sbarramento” soprattutto per i corsi appartenenti all'area scientifica e tecnologica.
Fino a un anno fa, all'Università degli Studi di Napoli Federico II, i corsi di laurea della classe di Biologia (Scienze Biologiche e Biologia Generale e Applicata) erano liberi, anche se era necessario superare un test attitudinale (non vincolante) per verificare le proprie conoscenze in matematica, fisica, chimica e biologia. Se il punteggio ottenuto fosse stato troppo basso, si sarebbero dovuti seguire dei corsi di recupero (oltre a quelli ordinari del corso di laurea) e colmare una sorta di “debito formativo” (sì, questi sistemi assurdi sono diffusi anche all'università!).
Quando sì è saputo che io ho intenzione di intraprendere il percorso di laurea in Biologia, l'ateneo federiciano ha stabilito che dall'anno accademico 2010/2011 le facoltà di Scienze Biologiche e Biologia Generale e Applicata debbano essere a numero programmato. Ecco perchè questa notizia mi ha fatto riflettere sulla mia sfiga abissale, che si è abbattuta su di me proprio nel momento in cui pregustavo una vacanza meritatissima, caratterizzata dalla nullafacenza più pura (a parte la preparazione per l'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica, che, comunque, rimane un miraggio).
Ora, io non credo che il sistema del “quizzone” (perchè così dovrebbe essere definito) possa essere valido per valutare se uno studente ha passato la sua vita a scaldare la sedia oppure a inzuppare i libri col sudore della sua fronte. Un test a scelta multipla è, secondo il mio parere perfettamente sindacabile, umiliante e di una profondità pari a quella di una pozzanghera: non sono quattro insulse crocette su dei quadratini a stabilire se io conosco la matematica, la fisica, la chimica, o, peggio ancora, la cultura generale!! Ma che significa “cultura generale”? Io non l'ho mai capito! La cultura di una persona è generale? Si può chiamare “generale” la cultura? La cultura di una persona non è qualcosa sempre in costruzione, che si sviluppa parallelamente alla personalità di un individuo? E la fisica, la chimica, la matematica, la biologia, non fanno parte della cultura? La cultura non può essere generale, perchè, se così fosse, non sarebbe più cultura: sarebbe qualcosa di fisso, rigido, informe, plastificato. Quella che nei test di Medicina e affini viene chiamata “cultura generale”, secondo me, assomiglia molto alle definizioni che ho trovato sulla Settimana Enigmistica qualche giorno fa.
Ma, cultura generale a parte (per fortuna, non è contemplata nel test che devo fare a settembre), sinceramente penso che la preparazione e l'impegno di uno studente debbano essere misurati durante il percorso universitario, mettendo TUTTI in condizione di poter dare il meglio di sè, cosa che assolutamente non credo possa fare un triste quiz a scelta multipla. Non sempre coloro che riescono a superare i test di Medicina e affini sono poi in grado di affrontare la durezza, la fatica che comporta qualsiasi tipo di studi. Diversi entrano perchè hanno avuto fortuna (qualche volta anche a me capita di indovinare la risposta giusta senza sapere niente dell'argomento), altri perchè, magari, sono davvero bravi, altri ancora perchè riescono a dribblare i controlli o copiando, o comunque portando con sè qualcuno che è molto preparato. Ma sono anche tantissimi coloro che hanno una passione vera per quel corso di studi, coloro che profondono un impegno sincero nella preparazione, coloro che costruiscono progressivamente la loro cultura, e NON ENTRANO! Non superano 'sti benedetti test! Perchè? Perchè le anime pure, innocenti, magari anche acerbe, ma così desiderose di faticare, di “buttare il sangue”per qualcosa che amano, spesso sono superate da quelle più forti, o più fortunate. E allora è giusto operare una selezione così dura e meschina a priori, negando la possibilità di provare, di sbagliare e rialzarsi da soli, con le proprie forze, a chi vuole davvero realizzare il suo sogno?
Non dico che una selezione non debba essere fatta: io posso essere innamoratissimo della medicina, ma proprio non sono portato, non riesco a stare al passo, non riesco a sopportare la fatica (con tutta la buona volontà). E allora è bene che abbandoni la strada intrapresa. Ma la cernita non deve essere tale da precludere la possibilità stessa di mettersi in gioco: anche perchè è dimostrato che molti studenti che iniziano i corsi non sempre riescono a seguirli con assiduità, puntualità e profitto. Penso che la selezione debba essere fatta durante il percorso. Se io sono assiduo, volenteroso, studio ogni giorno della mia vita, butto il sangue, mi dimostro e sono appassionato alla materia, se conseguo una votazione minima soddisfacente e non vado fuori corso, allora posso proseguire. Se mi assento spesso, sono svogliato, ho scelto di fare il medico per tradizione e nepotismo, se a stento arrivo al 18, allora via, fuori, la medicina (ma qualsiasi altra facoltà) non fa per me. Naturalmente questo comporta che ci sia una serietà di fondo sia negli studenti che negli insegnanti, e, in genere, in tutto il sistema universitario: che poi la serietà in Italia sia appannaggio di pochi, bè, questo è un altro, triste discorso da fare.
Ancora: molti di coloro che non superano i quiz a Medicina si iscrivono a Biologia, la quale, per quasi tutti, diventa un ripiego. Il primo anno a Scienze Biologiche a Napoli era sovraffollato: a partire dal secondo anno già c'era una diminuzione di studenti. Il corso di Biologia viene sminuito, passa in serie “Z”, quasi come se questa disciplina così nobile, affascinante, fondamentale, sia da disprezzare, rispetto alla brillante Medicina. È chiaro che poi l'ateneo federiciano ha stabilito che anche la classe di Biologia debba essere chiusa. Troppi studenti, troppe matricole perdigiorno, che pensano non ci si debba impegnare a fondo anche per le Scienze Biologiche. Un andazzo. Non mi stupirebbe se anche Giurisprudenza un giorno sarà a numero chiuso per lo stesso motivo (e lì ce ne sarebbe bisogno).
Un altro motivo per sabotare il numero programmato: il proliferare dei corsi di preparazione per l'ammissione all'università, degli Alpha Test, delle lezioni specifiche messe a disposizione dagli atenei stessi: un giro enorme di affari e soldi, che non porta a nessun risultato concreto o soddisfacente.
Io non so come andrà il 7 settembre, giorno in cui dovrò affrontare il test per Scienze Biologiche: nel profondo spero di superare la prova, perchè (a parte fare l'attrice)grazie alla mia grande professoressa di scienze del liceo, mi piacerebbe tantissimo lavorare nella ricerca biologica in futuro. Pertanto auguro in bocca al lupo a me e a tutti coloro che a settembre si scontreranno con i quiz. E, soprattutto, auguro uno speciale in bocca al lupo alla mia amica Vittoria, che, lo spero più di quanto possa sperare di entrare in Accademia, sarà una brillante odontoiatra.